Urano: occhio non vede, cuore non duole (mica tanto, però...)

Giancarlo UfficialeGiancarlo Ufficiale: ricercatore e professionista dell'arte, si occupa di astrologia da circa 25 anni, e in particolare di astrologia classica dagli ultimi 16. Socio fondatore e Consigliere dell'associazione Apotelesma, scrive per le riviste del CIDA Linguaggio Astrale e Sestile. Si autodefinisce ”caparbio ed irrequieto, con una pessima quanto meritata fama di intransigenza, dovuta all'idiosincrasia verso la disonestà intellettuale e la presunzione di molti sedicenti astrologi”. Questo articolo è comparso originariamente sul sito dell'associazione Apotelesma, 1 novembre 2008.


Della luce degli astri.


Non sarà male, a beneficio dei lettori digiuni dei princìpi dell’arte, che seppure di sfuggita ne ricordi qui qualcuno, al fine di spiegare perché i pianeti transaturniani sono esclusi dal metodo.
Il principio fondamentale sul quale essa si edifica è quello dell’emanazione luminosa, vale a dire che gli astri – tutti, quindi anche le stelle, le comete, ecc. – influenzano il vivente sulla Terra a seconda della forza, della potenza della loro luce e del loro colore. Influsso che non è diretto su questo vivente, ma traslato dall’atmosfera, che varia a causa loro il suo equilibrio naturale dato dall’interdipendenza delle luci del Sole e della Luna. Ma la luce degli astri, e dei pianeti in particolare, non è fissa, sempre uguale, ma varia a seconda della loro posizione rispetto al Sole, considerando i moti dal punto di vista geocentrico. Vi sono dei periodi in cui un pianeta non è visibile, poiché è troppo vicino al Sole; poi, quando ha posto tra sé ed il luminare una distanza sufficiente compie la sua prima apparizione, e questa fase fondamentale si chiama levata eliaca, poiché l’astro appare alla vista poco prima dell’alba, cioè poco prima che la luce del Sole lo nasconda di nuovo. Poi si allontanerà prima rapidamente, poi sempre più lentamente dal Sole, diventerà stazionario e poi ancora retrogrado, giungerà all’opposizione, tornerà ad essere stazionario, riprenderà il moto diretto tramontando dopo il Sole, fino a tornare ad essere invisibile.
Sia detto tra parentesi: tali fasi dei pianeti rispetto al Sole sono state lasciate completamente
cadere dall’astrologia dei giorni nostri, e si tratta di aberrazione ignobile, poiché si perde il senso fondamentale e più qualificante del giudizio: ciò apre una vera e propria voragine dottrinaria che null’altro può colmare se non il recupero di tali osservazioni.
Ora, Urano ha una magnitudine media intorno a +6,2, e ciò sta a significare che si pone al limite della visibilità umana, di quanto l’occhio dell’essere umano nelle condizioni di visibilità migliori può distinguere – quindi senza disturbi atmosferici e soprattutto senza quel flagello dei nostri tempi che è l’inquinamento luminoso –. Nel momento in cui sto scrivendo – novembre 2008 – la sua magnitudine è intorno a +6,2, e quindi forse solo chi ha una vista di 12/10 potrebbe vederlo. In alcuni periodi la magnitudine scende a +5,6, e pertanto in via teorica può essere osservato ad occhio nudo se si rispettano quelle condizioni ambientali ideali citate poc’anzi. Ma mai scende al di sotto di tale misura. Però è raro che giunga a quel valore; di norma supera sempre la 6ª. Di conseguenza una tale proprietà lo pone al di fuori del principio luminoso di cui si diceva. Quando compie la sua levata eliaca? E quando il suo tramonto eliaco? Impossibile stabilirlo. Quanti sono i gradi del suo irraggiamento in cielo? Praticamente nessuno, poiché non ha luce, o quasi mai.
Siamo in presenza di un’incertezza assoluta, e come tale del tutto invalutabile.
Nettuno poi con la sua magnitudine media di +8,5 è totalmente escluso da questo metodo. Di Plutone non parliamo proprio, dato che ormai è stato giustamente stabilito che non si tratta di un vero e proprio pianeta.


Dei sani presupposti dell’indagine scientifica

 

Quello dell’astrologia classica è un sistema di per sé completo, che – pare – funzioni, e come tale non abbisogna dell’aggiunta di ulteriori elementi; semmai è necessario affinarli e ricalibrarli. Questa sarebbe già un’argomentazione sufficiente per continuare a tenerne fuori i pianeti transaturniani.
Tuttavia ve ne aggiungerò un’altra, che però riguarda esclusivamente l’autore di queste righe, e non la disciplina in sé. Non ho completato il mio percorso astrologico, iniziato una ventina di chili fa’. La dottrina è assai dura, la comparazione dei testi degli autori antichi non sempre agevole, e siccome nulla deve esser preso per oro colato, uno dei miei impegni è dato dalla verifica. Ogni verifica deve esser compiuta nel modo più rigoroso possibile, e quello scientifico lo è, almeno in teoria. Pertanto la verifica, la ripetizione dell’osservazione devono – senza eccezione – esser compiute adoperando i princìpi ed i metodi che sono propri dell’astrologia classica, senza immissioni di elementi di disturbo che inevitabilmente falserebbero la prova. Non ho la minima idea del se e del quando concluderò questo percorso. Se mai ne vedrò la fine allora mi concederò anche il lusso di cominciare a speculare di che farmene di Urano, ovvero di come inserirlo in quel contesto che, ripeto, di per sé è completo. Ma non prima.
Adesso che ho spiegato la cagione del perché non ho nulla contro Urano ma neppure nulla a
favore, e spero di aver chiarito definitivamente perché (ancora) non lo possiamo accettare e quindi inserire nel sistema, vorrei concedermi qualche digressione su alcune argomentazioni che mi attirava esporre, se non altro per non dar(mi) l’idea di rifiutare la messa in gioco delle mie convinzioni (invero mai inamovibili)...


Del fascino dell’ambiguo


È questa sua ambiguità – dal mio punto di vista, si capisce – ad attrarmi, ad incuriosirmi. Questo suo stare tra il visibile e il non visibile, questo suo stare sul bordo tra luce ed oscurità. E la sua luce stessa, a guardarla ad occhio nudo, appare così diversa dalle altre, fioca, indecisa, un po’ grigia e un po’ celestina, ma più la prima che l’altra. Luce che cambia quando prendi il binocolo, che diventa più nitida, quasi azzurra con riflessi verdastri; ma a occhio nudo no, ti dà proprio l’idea del livido; il più livido degli astri in cielo. Gli osservatori dell’antichità consegnarono il primato del livore a Saturno, poiché nel suo colore giallo vi trovarono una tale sfumatura, che non apparteneva invece a Mercurio, più brillante e vivido. Variazioni microcromatiche che a quegli occhi così ben esercitati all’osservazione non sfuggivano. Ma che abisso tra la luce di Saturno e quella di Urano!
Se devo pensare ad un malefico, penserei più a Urano, se solo lo potessi vedere sempre in cielo, tutto l’anno. Già, questa sua luce… ma come ha fatto André Barbault a vederci un pianeta di fuoco? Più d’ogni altro invece mostra il freddo ed il secco. Terra dunque, e non fuoco. E comunque è sempre un po’ fuorviante assegnare elementi agli astri; assegnargli le qualità prime (freddo, caldo, umido, secco) è invece corretto, indispensabile: sempre che si voglia ragionare all’interno di una fisica aristotelica, che poi a ben vedere è una protofisica. Perché dico questo, visto che poi non è un problema che dovrebbe toccarmi? Perché, vedete, il primo passo da compiere per intendere la natura d’un pianeta, d’una stella, d’una cometa, per collocarli all’interno di un sistema che si riferisce ad una semantica celeste, consiste nell’individuare le sue qualità prime. È l’inizio dell’osservazione. E già da questi elementi grezzi a posteriori mi rendo conto di quante fesserie sono state scritte su questo pianeta. Sono cose che dispiacciono: c’è qualcuno che ci ha preso in giro, magari a sua stessa insaputa, e comunque spia ulteriore di quanto le cose nell’astrologia d’oggi non vadano per il verso giusto. Pianeta dell’improvviso, dell’originalità, dell’insolito, della velocità, della tecnologia, del progresso, della ribellione… e tante altre definizioni sono state elaborate. Ma con quale obiettività, con quale rigore? Con quali prove, sempre nei limiti in cui nell’astrologia può essere evocato un tale termine? Sì, ci sono oltre 200 anni di osservazioni;
tempo che sembra tanto, ma in realtà è davvero scarso, se rapportato a quello occorso agli antichi per giungere alle loro formulazioni. Ogni astrologo poi può invocare la sua esperienza, e qui tocchiamo un tasto assai delicato, financo nevralgico: già nei decenni precedenti lo psicanalista Jacques Lacan e, successivamente, l’epistemologo Paul Feyerabend illustrarono come spesso lo scienziato giunge a dimostrare ciò che desidera provare, al di là dell’obiettività scientifica, che in qualche modo viene aggirata. In quest’ottica pare che l’astrologo sia ancora più fragile, soprattutto a causa del fatto che non esiste alcuna obiettività scientifica da raggirare; si procede dritti, di gran carriera verso la (pseudo)oggettivazione del proprio desiderio o del proprio bisogno. Qualcuno a sostegno di una tale pratica si è spinto ad evocare la fisica della meccanica quantistica, ma siamo davvero fuori strada. Non si salva nessuno, e men che meno chi scrive. Solo che io, essendone avvertito, ho preso da tempo le mie contromisure. Non dico che siano sempre efficaci, ma è pur qualcosa. E la prima di esse consiste – forzando una mia inclinazione caratteriale – nella
prudenza. E la seconda – idem – nella pignoleria. E la terza – idem – nella diffidenza, a cominciare dai miei stessi risultati. È per questa ragione che diffido di quanto finora s’è letto, detto, affermato, assicurato, pontificato su Urano. Quella luce…, sì, quella luce mi fa pensare all’immobilità, alla morte, alla cristallizzazione, al respiro trattenuto, alla nebbia mista all’ossido di carbonio, al soffocamento, alla frigidità, qualsiasi sia il significato che vorrete attribuire alla parola. Ma non voglio esagerare, e allora torno al punto iniziale: pianeta freddissimo e secco. Altro che elettricità, velocità, progresso, ribellione, e così via. Oddìo, una sua originalità la possiede: l’asse di rotazione coincide quasi con l’equatore, e similmente a Venere ruota su sé stesso in senso inverso al nostro e a quello degli altri pianeti. Però queste sono cose che sappiamo attraverso l’osservazione scientifica per mezzo di strumenti ottici assai potenti. Ma ai fini astrologici non assumono alcuna importanza, come nessuna importanza ha il fatto che Giove e Saturno siano corpi gassosi, che i benèfici Giove e Venere siano in realtà i pianeti ambientalmente più infernali di tutto il sistema solare, e così via. È la loro luce che influenza quaggiù, non le loro proprietà intrinseche. In altri termini: con Urano bisognerebbe ricominciare tutto da capo. Avendo tempo e voglia. E soprattutto rigore etico.


Non è solo l’occhio umano a vedere


Ma torniamo su questo suo stare sul bordo tra visibile ad occhio nudo ed invisibile. L’obiezione che pongo – che immagino più di un lettore nel frattempo avrà posto per conto suo – è: ma chi stabilisce questo limite? E perché? Il limite è stato posto, come si diceva, rispetto alla capacità visiva dell’essere umano. È lecita questa concezione? Suppongo di sì per l’epoca in cui è stata ammessa. Tuttavia da allora il genere umano ha visto la rivoluzione copernicana, che ha (ri)scoperto che la Terra – e quindi l’uomo – non è al centro dell’universo, e poi la rivoluzione darwiniana, con la scoperta che l’uomo non è al vertice dell’evoluzione; poi è venuta la rivoluzione freudiana che, ribaltando Descartes, stabiliva che l’essere umano non ha un centro in sé, un Io che comanda e dispone, ma che a pensare, a decidere per lui sono in due, quando va bene: l’Io e l’inconscio, l’intelletto ed il desiderio. E poi Einstein, con la sua teoria della relatività. Alla luce di tutto questo mi verrebbe da dire che forse non è la vista dell’uomo che può decidere sui limiti della visibilità, e di conseguenza sui suoi effetti. Quello era un buon punto di partenza, non c’è dubbio, ma ora la consapevolezza è diversa, e non possiamo escludere che qualche specie non umana riesca a vederlo, Urano. E magari pure Nettuno, la cui magnitudine è prossima a +8,5. Ci vorrebbe qualche aquila sapiente che ci riferisse in merito. Tuttavia è anche vero che con una vista così acuta il cielo diverrebbe davvero un caos inestricabile: troppi punti luminosi, senza la concreta possibilità di trovare dei riferimenti stabili, se non i corpi maggiori e la stella polare. V’è poi un altro argomento che non mi sento di sottovalutare: se l’astrologo (o meglio, il filosofo che c’è in lui, giacché non si dà astrologo che non sia anche filosofo – oltre che gattofilo, si capisce –) afferma che ha virtù illuminativa e quindi efficacia solo ciò che è visibile con il proprio senso, nega contemporaneamente l’azione ed il potere del non visibile. Cosa che deve essere esclusa nel modo più assoluto, va da sé. S’imporrebbe allora una scelta di questo tipo: 1 – l’astrologia accetta e dichiara teoreticamente di servirsi solo dei corpi celesti risolvibili all’occhio umano giacché solo questi possono essere definiti i suoi strumenti, in quanto sufficienti per i suoi fini; 2 – oppure deve ridefinire la semantica celeste, avventurandosi così in terreni ancora ignoti, o quasi.


Se proprio dobbiamo…


…occuparci del mito. Ho scarsa simpatia per questa prassi, che non voglio qui discutere. Ma è indubbio che i presunti significati (i famigerati simboli) attribuiti ai pianeti transaturniani distillano direttamente dalla mitologia greca. O, per dire ancora meglio, alla sua mainstream, alla sua corrente principale. Allora ai patiti del genere pongo qualche interrogativo. Perché non ci si ricorda mai che Urano è cronologicamente il primo degli dei? Prima di lui il caos. Quindi lui è una sorta di primo principio ordinatore. Magari fra il visibile e il non visibile, tra un cielo sin troppo ricco ed un cielo, per così dire, essenziale. Non dovrebbe essere cosa da poco. Come non è cosa da poco che attraverso la sua castrazione nasca Afrodite: dea senza una madre e con un padre che non l’ha voluta. Freud e Lacan ci spiegano che affinché il desiderio sorga occorre essere castrati. Si parla però dell’introduzione al desiderio del figlio, e pertanto l’operazione spetta al padre, mentre nel mito è il figlio a portarla a compimento a danno del padre. Né si può dire che castrando il padre il figlio nasca al desiderio, giacché Saturno mai avrà rapporti d’alcun genere con Afrodite, e neppure si è a conoscenza che li abbia mai voluti. Perché allora un tale ribaltamento? Non lo so.
Ho solo voluto portare un esempio su quanto sia poco appropriato servirsi del mito in astrologia: esso pone molti più problemi di quanti presumibilmente ne risolva.


Di come disporre Urano nello zodiaco


Vedete che sinora mi sono ben guardato dal fornire legittimità a qualsivoglia ipotesi moderna sul pianeta in discussione. Continuo ad elucubrare sulla scorta della dottrina classica. Né può essere diversamente. Non di meno ho la pretesa di fornire a chi legge, a quei valorosi che sono riusciti a seguirmi sin qui, qualche altra riflessione circa il suo eventuale domicilio. Sempre che poi abbia un senso assegnare un domicilio ai transaturniani. Rientrano i transaturniani nella semantica celeste degli altri astri o ne possiedono una propria? Non so neppure questo. D’altronde il quesito pare non aver turbato nessuno, e quindi quasi unanimemente detto domicilio è stato attribuito all’Acquario, almeno il principale. Molti vi hanno aggiunto il Capricorno, e sono coloro che attribuiscono ad ogni pianeta il domicilio in due segni, esclusi il Cancro ed il Leone, com’è giusto che sia. Ma perché proprio l’Acquario? Si tratta di un segno d’aria invernale, caldo ed umido: il meno caldo tra i segni d’aria e il più umido, poiché all’inverno sono attribuiti il freddo e l’umido. Il che sarebbe l’esatto opposto della natura del pianeta, che è appunto freddissimo e secco. Ma questo non è un criterio fondamentale; in fin dei conti a Marte, caldissimo e secco, è stato attribuito quale domicilio – oltre l’Ariete che ben si conforma alla sua natura – lo Scorpione, che è freddo ed umido. E la stessa cosa succede per Saturno in Acquario. Nondimeno però il Capricorno sembrerebbe più appropriato, in quanto il più freddo dei segni di terra, e ben secco, meno della Vergine ma più del Toro. Mancherebbe appunto il secondo domicilio. Attribuirlo all’Acquario avrebbe un senso, dacché esso appartiene a Saturno, e secondo quanto ho esposto sopra, Urano è portatore di una natura per così dire supersaturnina. Questa attribuzione tuttavia non è priva di effetti perversi, giacché s’è trascinata dietro, credo per metonimia, una significazione del segno che precedentemente era affatto diversa, se non contraria. Intendo dire che quelle qualità che sono state da subito riconosciute ad Urano – e secondo me erroneamente, come si sarà capito –, hanno stravolto quel che all’Acquario era stato riconosciuto fin lì dai più, sempre all’interno di quella semantica celeste che costituisce il senso primo dell’astrologia.
Partiamo dalla genesi, niente meno. E poniamo all’origine il famoso Thema Mundi. Credo che tutti sappiate che è stato postulato, in una via del tutto teorica ma dall’alto valore didattico e metaforico, che il mondo è stato creato nel momento in cui tutti i pianeti e i luminari stavano al grado 0 dell’Ariete, essendo l’oroscopo – o ascendente che dir si voglia – nel segno del Cancro. Ciò che ricorda assai da vicino la teoria astrofisica del big–bang, ma questo è un altro discorso. Ne consegue che il Medio Cielo sta in Ariete, il discendente – o angolo occidentale – in Capricorno, il Fondo Cielo in Bilancia. Ne deriva, ancora, che il segno dell’Acquario corrisponde all’8ª casa, settore che sempre è stato associato alla morte intesa come qualità, come modo e non come evento. Il termine “febbraio” deriva dal dio etrusco Februo, a cui fu dedicato il mese corrispondente, e che era il dio degli inferi, una sorta di collega di Plutone, se mi consentite la facile battuta. Retorio, VI secolo d.C., che sempre si è rifatto alle origini più classiche dell’età greca, chiamò il segno nekrôdes, vale a dire “simile al morto”, ed ancora oknerón, cioè “timido”. E aggiunse inoltre che chi nasce al sorgere del segno ama la purezza, ma al tempo stesso è vile e impudente, smargiasso e vanaglorioso. Prima di lui il latino Macrobio, vissuto tra il IV ed il V secolo d.C., nei suoi Saturnalia scrisse che l’Acquario, essendo opposto al Leone – domicilio del Sole – è contrario ed avverso alla natura umana. Tale lontananza temperamentale ne fà anche il luogo in cui gli eccessi dell’animo umano si purgano. Ed infatti tra i mestieri dei nativi di questo segno – ma all’epoca si intendevano coloro che nascono con il sorgere del segno, ossia con l’ascendente in Acquario – venivano indicati i necròfori, coloro che sono addetti alla sepoltura dei morti e
comunque tutte quelle occupazioni che avevano a che fare con la morte. Questo il dato principale.
Poi, chiaro, venivano individuate altre qualità, anche perché non è che la morte fosse riconosciuta come un tabù indicibile: era un avvenimento strettamente correlato alla vita. E se la vita è data principalmente dal Sole, il segno che si oppone al suo domicilio sovrintende a ciò che alla vita è contrario. Tutto qui il senso. Ma siamo davvero lontanissimi dalle concezioni attuali del segno.
Continuiamo la nostra esplorazione storica, che ognuno può poi controllare dalla stessa fonte che sto utilizzando, vale a dire Le dimore celesti, di Giuseppe Bezza, edizioni Xenia 1998 (sempre che non sia esaurito, come temo).
Doroteo di Sidone (I secolo d.C.): “Sono maldicenti, odiano i propri [familiari], sono inflessibili, caparbi, perfidi, scaltri, tutto nascondono, misantropi, empi, delatori, tradiscono l’onore e la verità, malevoli, gretti” (dal Pentateuco, I Libro, cap. 2).
Vettio Valente (II secolo d.C., contemporaneo di Tolemeo): [questo segno] “è cagione di affanni, di lotte, di oneri, di lavori aspri; è segno artigianale, pubblico”. Un ritratto più articolato ce ne dà Firmico (IV secolo d.C.): “Se l’oroscopo si trova in Acquario, chi nasce dilapida in diversi modi tutto ciò che ha acquisito e perde quanto ha potuto guadagnare ed accumulare. Ma ciò che ha perso, lo ritrova frequentemente con facilità. Egli sosterrà molti, darà loro di che vivere e coloro che avranno da lui ricevuto qualche cosa si mostreranno ingrati. Si troverà in grave pericolo, abbandonato dagli uomini e verrà liberato grazie alla protezione divina. Sarà perseguitato dalle calunnie invidiose di molti. Si occuperà di scritti divini, di attività sacre o religiose e sarà conosciuto dai grandi per le sue buone attività”.
Più tardi gli astrologi bizantini e medievali ne danno un ritratto decisamente meno benevolo di quello di Firmico, anche se le donne appaiono migliori, più gaie, assennate e compassionevoli degli uomini.
In un certo senso Firmico Materno può essere considerato un capostipite della moderna concezione del segno dell’Acquario – da non confondersi con l’omonima costellazione, che possiede ben altri requisiti –, ma anche una sorta di eccezione, a parte la scalogna che pare perseguiti il nativo. Ora l’autorità di questi autori difficilmente può essere messa in discussione, ma resta il fatto di qualche discrepanza nelle loro opinioni. Quella di Firmico in un certo senso è minoritaria, ma non unica. Difficile prendere una posizione, anche perché un ascendente in Acquario – o in qualsiasi altro segno – non può essere giudicato nella sua assoluta purezza, poiché sempre e comunque interviene l’influsso di altri astri, vuoi per la posizione del pianeta che in esso trova il suo domicilio, vuoi per la presenza presso gli angoli della genitura di altri astri; fatto che non resta mai senza effetto.
Da tutto questo si evincono delle buone ragioni per accettare il domicilio di Urano in Acquario, o per non accettarlo affatto. Lo si può accettare per quanto dice Firmico – e ciò andrebbe però nel senso moderno del significato del segno –, ma anche per le opposte qualità indicate dagli altri autori, che meglio a mio parere si conformano alla natura sia del segno che dell’astro di cui stiamo trattando. Vettio Valente accenna al fatto che il segno sorgente dell’Acquario fà talvolta gli eunuchi, l’arabo al–Biruni (XI secolo d.C.) mette in rilievo la loro castità, e queste sono qualità che ben si accordano anche con la natura del pianeta (e, un volta tanto, con il mito…). Tuttavia se si dovesse cercare un segno che mitighi le sue qualità estreme, il freddo soprattutto – così come avviene per gli altri due malèfici: Saturno (freddo e secco) si compensa in Acquario (caldo e umido), Marte (caldo e secco) si compensa in Scorpione (freddo e umido) – non c’è dubbio che il segno dei Gemelli sarebbe il più adatto, essendo assai caldo e sufficientemente umido per la bisogna. E sarebbe maggiormente in linea rispetto a quelle qualità che oggi si vogliono vedere nel pianeta. Qualità sulle quali ho manifestato molte perplessità, invero, ma che nessuno – e tantomeno io – può escludere a priori quali ipotesi di lavoro. In ogni modo, più che una proposta, ciò a cui mi sono dedicato in queste ultime righe è un gioco.

 

Chiudere il cerchio

 

Non è infrequente che mi si chieda: ma non ti manca Urano? Come fai a sostituirlo nelle tue
interpretazioni? No, confesso che non ne sento nessuna nostalgia. Molti degli attributi che vi
scorgono i moderni autori si reperiscono facilmente nei pianeti cosiddetti tradizionali. In verità siamo in presenza di una tale ricchezza dottrinaria, che si fà fatica a domarla; anzi, ho il sospetto che alla fin fine sia indomabile per sua natura. E allora non è certo per nostalgia che mi sono lanciato in queste note, ma per provare di persona come si sta sulla soglia. D’altra parte l’inquietudine di cui parlavo sopra, e che a conti fatti mi sembra ancora più indomabile dell’astrologia classica, mena chi ne è posseduto ad agir in tal guisa. Virtù e dannazione che, suppongo, appartenga ad ogni ricercatore, sia esso seguace della nostra disciplina, sia di qualsivoglia altra branca del sapere.

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